SUL
PREMIO VASTO 2020
di
Luigi Murolo
L’edizione
2020 del Premio Vasto consente una riflessione a tutto tondo sulla sua
storia, attraverso il patrimonio che è riuscito a collezionare in oltre
sessant’anni di attività. Un’avventura iniziata nel 1959 che, tra alti e bassi
e con qualche interruzione, ha consentito alla città e ai suoi visitatori di
poter seguire da presso la storia dell’arte italiana contemporanea, a cominciare
dal periodo degli inizi attraverso i rapporti stabiliti con il mondo pittorico
della Quadriennale di Roma per poi proseguire con le grandi
retrospettive tematiche. Come si può capire, un’occasione unica quella odierna,
proprio perché in grado di ricucire passato e presente a partire
dall’incolmabile differenza che connota le molte temporalità attraversate dal Premio.
In tale prospettiva, l’itinerario nell’esperienza postmoderna della pop art
è ciò che meglio sottolinea la duttilità ermeneutica degli argomenti indagati.
E per quanto è dato di ricordare (soprattutto, per gli stimoli offerti), sono
state ben due le rassegne che il Premio Vasto ha dedicato a tale vicenda
estetica: quella di Maurizio Calvesi (scomparso a luglio di quest’anno) e
Alberto D’Ambruoso del 2005 e l’altra di Lorenzo Canova del 2019.
A
questo punto, lasciando da parte vicende specifiche dell’istituzione culturale
la cui storicizzazione è affidata alle importanti pagine critiche di Carlo
Fabrizio Carli (Il Premio Vasto nel quadro dei premi pittorici italiani)
e di Lorenzo Canova (Un lungo viaggio nell’arte. La Collezione del Premio
Vasto) che accompagnano il catalogo dell’attuale edizione, la presente nota
vuole parlare di un tema affrontato nelle precedenti edizioni (specialmente la
XLIX dal titolo Archeologie a venire) che intriga per la particolare
relazione che il Premio intrattiene con la sede espositiva in cui si
svolge. Vale a dire il rapporto tra archeologia e contemporaneità che si dipana
proprio in quel Palazzo d’Avalos che ospita l’antico Gabinetto Archeologico
Comunale di Vasto. E se si pensa che forse l’opera più importante (un
assoluto fuori tema) presente nella collezione del Premio Vasto ha per
titolo Archeologia di cui è autore Emilio Tadini (premio acquisto 1973),
diventa chiara la suggestione che può esercitare un simile soggetto in un
contesto di tal fatta. Una tela – va detto – che, raccordata agli stessi oggetti
del Museo del costume di cui in qualche modo sembra essere
interprete, propone una significativa riflessione sulla rottura del continuum
storico in unica sede e delle possibilità interpretative – e perché no,
scenografiche – che, tra costruzione e decostruzione, offre la contemporaneità di
lettura di passato e presente. E a tal proposito, non si può non pensare alla
magnifica soluzione espositiva del Guerriero di Capestrano nel Museo
Nazionale di Chieti ideata e realizzata da un importante artista contemporaneo
come Mimmo Paladino. Quasi non bastasse, la tecnica mista di Guido Biasi che
troviamo nella collezione del Premio Vasto dal titolo Mnemoteca 60
[fig. 1] – premio acquisto del 1975 – apre un altro tema
importantissimo: quello della teca della memoria (tra l’altro, titolo di una
collana di libri editata dal Premio). Vale a dire, l’attenzione per il
patrimonio culturale immateriale che, malgrado tutto, riesce ancora a
sopravvivere nel presente: dall’immaginario ottocentesco impresso dal dagherrotipo,
al paesaggio d’antan, al cromatismo dell’oscurità, allo stesso vuoto di
là da venire. Il che vuol dire che, di là dall’ultima traccia distopica
suggerita dall’artista, l’opera di Biasi pare restituire su tela ciò che
Giorgio Agamben ha prospettato en philosophe: «Contemporaneo è colui che
riceve in pieno viso il fascio di tenebra che proviene dal suo tempo» (Che
cos’è il contemporaneo?, Roma, Nottetempo, 2008, p.19).
 |
(Fig. 1: Guido Biasi, Mnemoteca 60 (1970) Tecnica mista, cm 80 x 100,5) |
E
c’è di più. La cinquantesima edizione del Premio Vasto (2017), curata da
Silvia Pegoraro ha presentato una straordinaria testimonianza di come non
bisogna misurarsi con l’antico. Di un possibile percorso d’uso dei materiali
archeologici che la contemporaneità ha rigettato con forza. L’esempio di cui
stiamo parlando è relativo alla piccola scultura (cm 12 x 25 x 36,5) di
Costantino Barbella dal titolo Santa Cecilia realizzata nel 1908 [fig.
2], l’anno prima dell’approvazione della legge n. 364 del 20 giugno 1909,
«Per l’antichità e le belle arti», vero atto di nascita della disciplina
nazionale italiana di tutela, di quelle «cose immobili e mobili che abbiano interesse
storico, archeologico, paletnologico, paleontologico o artistico». Perché
questo riferimento? Per la ragione che, il celebre scultore abruzzese, realizza
un marmo statuario collocato su un granito egizio di provenienza archeologica
(da dove?). Dunque, lavora su un materiale di spoglio fino a quel momento
legittimamente utilizzabile. Ciò vuol dire che, senza la legge appena
menzionata, ci saremmo potuti trovare di fronte a un’ipotetica (ma non troppo!)
situazione del tipo «quod non fecerunt barbari, fecerunt Barberini», la
celebre locuzione latina coniata dal Pasquino di turno nel 1625, circa le
scelte di Urbano VIII sull’asportazione e sulla fusione delle travature bronzee
del pronao del Pantheon, per costruire il baldacchino di S. Pietro e i cannoni
per Castel S. Angelo.
 |
[Fig. 2: Costantino Barbella, Santa Cecilia (1908)] |
Diciamola
tutta. Il Premio Vasto ha restituito, nel tempo, le molteplici forme con
cui la contemporaneità ha affrontato il rapporto con l’antico. Anzi,
nell’eventualità di un ipotetico catalogus catalogorum tematico su
questo versante, riusciremmo a individuare altri percorsi nascosti del Premio
in cui passato e presente dell’arte convivono nella contemporaneità. Il
discorso merita ulteriori approfondimenti. Ma prima di andare oltre, è bene
sottolineare un aspetto assolutamente rilevante: la conservazione museale
dell’arte contemporanea con cui devono fare i conti. In effetti, con questa
edizione il Premio Vasto ha compiuto un’operazione di straordinaria
importanza: l’inventariazione e la mostra del patrimonio culturale acquisito
negli anni e oggi esistente. Che vuol dire: trasparenza del sistema di
tesaurizzazione e di tutela. Importantissima. Ma con un’indispensabile
aggiunta, sempre in relazione con l’arte contemporanea che è il vero refrain
del presente intervento. L’esigenza, cioè, di redigere un protocollo ad hoc
per regolamentare quanto previsto da quell’art. 4e dello Statuto comunale
che recita: «tutela del patrimonio storico, artistico, culturale ed ambientale
della Comunità valorizzandolo, conservandolo nel modo più idoneo e rendendo
fruibili i beni che lo costituiscono». Cosa ovvia, dirà qualcuno. Di certo non
scontata, mi sento di aggiungere. Si dà il caso che l’arte contemporanea si
trova in una condizione diversa dalle altre. Ad esempio, il Codice dei beni
culturali 2004 all’art. 10 prevede la libera circolazione (anche
all’estero) di «opera di autore vivente o la cui esecuzione non risalga ad
oltre cinquanta anni», implicandone di conseguenza la regolare alienabilità. Con
un’ulteriore aggiunta. L’art.
175 della Legge 4 agosto 2017, n. 124 allarga fino a settant’anni le maglie
della libera circolazione. Ma per tornare alle disposizioni previste dal codice
del 2004 si è potuto procedere a qualcosa di singolare al Museo Michetti (MuMi)
di Francavilla al Mare. Qualcosa che lascia davvero senza parole. La cronaca
riportata dal quotidiano «Il Centro» in data 16 dicembre 2014 spiega le ragioni
di tale stupore:
Quadri
venduti al MuMi incassati 30 mila euro
Francavilla,
all’asta la metà delle opere donate dai finalisti del Premio Michetti Le
rimanenze possono essere ancora acquistate: ci sono già le prime richieste
La
vendita all’incanto delle opere della collezione Pro Fondazione Michetti ha
fruttato circa 30mila euro. L’asta di autofinanziamento dell’ente morale,
organizzatore del prestigioso Premio Michetti, si è svolta domenica sera al
MuMi. Delle 35 opere donate da artisti finalisti e vincitori del Premio, allo
scopo di sostenere le attività istituzionali della Fondazione, ne sono state
vendute poco più della metà. Fra queste, due tra le più prestigiose e quotate:
lo Struzzo artificiale in metacrilato, di Gino Marotta (1968) e il
dittico, di Alberto Biasi, L’ira funesta n. 1 e L’ira funesta n. 2 (2006),
realizzato con tecnica mista su tela.
L’opera
di Marotta, valore stimato di 25mila euro, è stata battuta per 10mila euro
(base d’asta). «L’ha acquistata un giovane informatico di Teramo, appassionato
di arte», precisa il presidente della Fondazione Vincenzo Centorame. Il dittico
di Biasi, valore stimato 15mila euro, se l’è aggiudicato un altro abruzzese per
7.500 euro (base d’asta). «Il risultato dell’asta è stato apprezzabile,
considerando il momento storico. Nessuna opera è stata svenduta», continua
Centorame. «Per non offendere nessuno degli artisti, che generosamente hanno voluto
esserci vicini, è stata fissata una base d’asta dignitosa per tutte le opere
donate, al di sotto della quale non si è scesi».
I
quadri della collezione, rimasti invenduti, possono ancora essere acquistati.
«C’è sempre un dopo asta e ci sono già diverse persone interessate che ci hanno
scritto», dice ancora il presidente, rimarcando come la Fondazione sia stata
costretta a ricorrere all’asta di autofinanziamento, a causa della mancanza di
finanziamenti pubblici. «Da qualche anno le sovvenzioni pubbliche sono
drasticamente diminuite e non abbiamo più il sostegno degli enti. Nelle ultime
edizioni del Premio Michetti non abbiamo più messo, ma gli artisti sono stati
molto generosi e ci hanno lasciato ugualmente la loro opera. Il Premio Michetti
è il più antico d’Italia dopo la Biennale di Venezia; è un premio prestigioso
che non ha mai avuto problemi, né suscitato chiacchiere per la scelta dei
vincitori. Il nostro patrimonio è enorme: è tra le più belle collezioni
d’Italia». Per preservare il Premio e il patrimonio artistico della Fondazione,
Centorame confida nella nuova amministrazione regionale. «Da quando sono
presidente, circa 15 anni», afferma, «sono venuti a vedere il Premio personaggi
politici, direttori di musei esteri, ma mai un assessore regionale alla
cultura. Spero che il nuovo governo rispetti l’impegno preso di dare la
precedenza alle eccellenze, sostenendo la tradizione del Premio Michetti».
Tutto
questo in un ente che avrebbe dovuto procedere alla tutela e alla
valorizzazione del patrimonio d’arte acquisito. Un compito, questo,
assolutamente legittimo per il mercato d’arte. Ma è comprensibile per un ente
che dovrebbe musealizzare e promuovere la conoscenza di opere acquisite alla
cultura della città relative a un periodo specifico della storia contemporanea
dell’arte italiana? Di solito il mercante vende, l’ente che acquisisce
tesaurizza. Difficile pensare il contrario. Ma per quanto arduo da intendere, diventa
realissimo negli effetti concreti. Ecco il rischio cui si può incorrere: la
vendita all’asta. Ed è proprio questo il rischio che si deve evitare. Cui si
può andare incontro in assenza di un protocollo specifico del Consiglio
Comunale di una città. E per quanto riguarda Vasto, ritengo importante
prospettare un protocollo ad hoc che, in ottemperanza dell’art. 4e dello
Statuto Comunale, decreti l’inalienabilità dei beni d’arte contemporanea
a qualsiasi titolo presenti nelle strutture museali del Comune (ad esempio, il
comodato d’uso)! L’eventuale ente proprietario di eventuali beni allocati in
comodato d’uso, dovrà prima sgombrare le sale e poi vendere. Ma con clausole
penalizzanti. I contratti devono prevedere tali possibilità. Ma c’è di
più.
Fortunatamente
il Comune di Vasto non ha subito gli effetti di questa deregulation
dell’arte contemporanea (quella, purtroppo, che il MuMi ha avviato, tagliando
le radici con il proprio passato). Anzi, come esempio positivo, mi piace
sottolineare la collezione permanente del Macte (acronimo di Museo arte
contemporanea Termoli) proveniente dal Premio Termoli istituito nel 1955 e che,
nella presentazione del sito precisa quanto segue: «La Fondazione Macte,
costituita nel febbraio 2019 con la partecipazione del Comune di Termoli e di
Emi Holding S.p.A. nasce con l’intento di promuovere l’arte e la cultura e di
valorizzare e gestire il patrimonio della collezione di opere del Premio
Termoli». A
conti fatti, una formula cui bisogna attenersi. Certo. Il Premio Vasto
non dispone delle 470 opere della collezione termolese che spazia dal
post-informale all’astrattismo, alla nuova figurazione, all’arte cinetica e
programmata. Ma ciò importa poco. Ogni istituzione ha la sua storia. Vasto ha
la sua. Una storia – vale la pena ripetere – che, per la prima volta, il
catalogo 2020 «storicizza» nel contesto dell’arte italiana del secondo
Novecento.
Due,
in buona sostanza, sono gli aspetti da considerare. In primo luogo, la
collezione del Premio Vasto; in secondo luogo, le restanti donazioni
d’arte contemporanea. Pur se caratterizzate da norme diverse, entrambe devono rispondere
alla regola aurea par excellence: un protocollo di inalienabilità per
tutte le opere di arte contemporanea, a qualsiasi titolo allocate nei depositi
comunali. Inoltre, stabilire criteri rigidissimi, da approvare sempre in
consiglio comunale, per la conservazione delle opere. Non foss’altro perché,
alcune delle quali (per la precisione quattro) purtroppo mancano ancora
all’appello: Andrea Carnemolla, Caduta di Icaro; Antonio Di Fabrizio, Strane
correlazioni; Giuseppe Fiducia, Trono del despota; Orfeo Tamburi, Case
sulle crete).
Ecco
allora il punto. Custodire il contemporaneo come se fosse archeologia. Ecco
perché, Archeologia, titolo dell’opera di Emilio Tadini (1973) presente oggi
in mostra e già prospettata l’anno scorso in occasione della cinquantaduesima
edizione, diventa il punto chiave di un ragionamento più generale su tutela e
promozione del Contemporaneo [fig. 3].
L’opera di cui si sta parlando è un acrilico su tela. Nei fatti, fin dal titolo
sembra profilare la pratica di «scavo» effettuata dall’artista nell’ambito
della storia dell’arte novecentesca e che, in chiave postmoderna, vuole
restituirne la cifra nemmeno poi tanto segreta. E che cosa vuol definire? Forse
una sorta di operazione di spoglio dei materiali formali dell’antichità in
qualche modo assimilabile a quella condotta dai maestri medievali nei confronti
dei resti romani riutilizzati proprio come res nella realizzazione delle
cattedrali? No. Nulla di tutto questo. Al contrario. L’opera di Tadini pare
rinviare a quell’orizzonte foucaultiano che prevede «la flessione delle parole»
– cosa che, sul piano artistico, implica «la flessione delle forme» – (del
resto, mi pare che sia questo l’indirizzo ermeneutico suggerito da Maurizio
Calvesi). In altre parole, coglierne il filo in quell’ambito critico-artistico
che presuppone il primato dell’analisi delle forme rispetto al sistema delle
rappresentazioni. In questa chiave, l’“archeologia” si trova a porre al centro
dell’interpretazione il tema dell’episteme (che potremmo tranquillamente
definire codice) che identifica le strutture primitive e originali di un
periodo con le successive pratiche discorsive e culturali.
 |
[Fig. 3: Emilio Tadini, Archeologia (1973) acrilico su tela (cm 100x81)] |
Da
tale punto di vista, tutta la postmodernità, mossa dal disincanto per le
teleologie di ogni tipo e per ogni finalismo storico, affida alla citazione e
al riuso delle forme moderne, le possibilità del proprio sussistere. Ed è con
questo modello, con quell’Emilio Tadini che ne è stato geniale interprete, che
la pop art italiana si trova a definire la propria modalità di essere-nel-mondo.
Le forme non hanno un telos, un fine. Sono disponibili in ogni momento.
Come le tutte le altre res.
Le
combinazioni possibili tra queste sono infinite. Ma sono solo alcune che si
affermano in un determinato periodo. Definibili come epistemi, configurano le
strutture originali di una determinata epoca. Ma come si riconoscono per la Pop
Art? Lo storico dell’arte Maurizio Calvesi procede in questi termini, a
partire dagli anni Sessanta e dall’esperienza della cosiddetta Scuola romana
di Piazza di Spagna: «De Chirico è stato molto amato dagli artisti della Pop
Art che gli hanno reso omaggio in molti modi, da Ceroli a Festa, a
Schifano, Marotta e Pascali, senza dimenticare Oldenburg, Lichtenstein o Warhol
in America. Fu bellissimo quando de Chirico sembrò accettare quegli omaggi
chiudendo la sua lunga e interessante fase barocca per iniziare lo splendido
periodo della sua Neometafisica degli ultimi anni di vita, con
un’esplosione di luce e una nuova felicità cromatica. I soli gialli sul
cavalletto, i palloni e i giocattoli colorati, le liete cabine dei bagni
misteriosi, i mobili nella valle, il mare di Ulisse che appare nella stanza
sono entrati così in diretta sintonia con la Pop internazionale come un
gioioso, giocoso e profondo segno di armonia». Ma nell’episteme del pop
– sempre secondo Calvesi – è riscontrabile la stessa attiva presenza del
futurismo di Umberto Boccioni.
Ora,
se è questa la prospettiva «archeologica» che opera nelle tele di Emilio Tadini
– e non abbiamo alcun motivo per dubitarne se è vero che l’opera di proprietà
del Premio Vasto datata 1973 ha per titolo Archeologia –, è ancor più
vero che, tra il 1967 e il 1972, l’artista realizza un ciclo di dipinti
intitolato Archeologia con De Chirico [fig. 4]. E in questo caso,
va detto, che, rispetto all’acrilico vastese, qui è esplicito il richiamo alla
lezione del maestro delle Muse inquietanti. Del resto, lo stesso De
Chirico si era ispirato, con grandi fusioni da gesso in bronzo lucidato, al
tema del Grande archeologo (un esemplare dei quali è stato esposto alle Scuderie
d’Avalos in occasione della 50a edizione del Premio Vasto) [fig. 5].
Per questo artista, l’archeologo non era solo forma, ma anche contenuto. In lui
era vivo lo spirito della modernità con la sua corrispondente dialettica. Nel
cuore delle figure, prendevano corpo i resti dell’antichità. L’archeologo era
realmente l’archeologo: colui che scopre la classicità nascosta riportandola
alla luce. Come accade per la pittura metafisica che porta allo scoperto il
lato non definito delle res. Cosa completamente diversa da Tadini che,
fin dal titolo e nel riuso esplicito dei pezzi dechirichiani nelle opere
realizzate tra il 1967 e il 1972, cerca il rifermento forte della pop art
italiana (non ancora l’episteme). Ad esempio, nell’ultima retrospettiva sul
pittore milanese recentemente allestita dalla Fondazione Marconi nella capitale
lombarda, una tela restituisce senza alcun nascondimento la figura del Grande
Archeologo [fig. 5]. Al contrario, l’acrilico vastese posseduto dal Premio
Vasto – come già detto, datato 1973 – segna una netta rottura con il suo
recente passato. Tadini opera una trasposizione metonimica del contenuto
dechirichiano. Esso diventa esclusivamente forma che apre all’episteme della
contemporaneità (da questo punto di vista sarà stata determinante la lettura de
Le parole e le cose, il capolavoro di Michel Foucault pubblicato in
Italia nel 1967. Magari con l’influenza interpretativa prospettata dal francese
per Las meniñas di Velázquez, non certo per quella suggerita da Picasso
nel 1957. Ricordo, tra l’altro, che lo stesso Pasolini ne aveva offerto una
splendida lettura in Che cosa sono le nuvole?, un corto del 1968). E
allora, mi chiedo: Foucault, dunque, alla base teoretica del pop tadiniano? Si
può solo rispondere: le condizioni ci sono tutte. Per cui da qui vale la pena
iniziare.
 |
[Fig. 4: Emilio Tadini, Archeologia con De Chirico (1972) acrilico su tela (cm 146x114]) |
 |
[Fig. 5: Giorgio De Chirico, Il grande archeologo (1970) bronzo lucidato, fusione da gesso (cm 95x49,5x47)] |
Pubblicato da Mercurio Saraceni