lunedì 7 settembre 2020

DUE O TRE COSE SULLE RECENTI VICENDE D’ERCE

 

(Foto: Mercurio Saraceni)

DUE O TRE COSE SULLE RECENTI VICENDE D’ERCE

di Luigi Murolo

Ho letto su vari organi di informazione che si stanno raccogliendo fondi per la piantumazione della scomparsa riserva di Punta d’Erce (e non Aderci). Devo dire che l’iniziativa mi sorprende. Non certo per la buona volontà di ripristinare l’area devastata (da questo punto di vista, opzione lodevolissima). Ma quanto perché, ancora una volta, sembra che sfugga il significato di «riserva». In effetti, il tratto di costa bruciato dalla mano criminale non ha distrutto solo specie vegetali sostituibili (che una nuova piantumazione potrebbe recuperare). Ma ha prodotto qualcosa di irreversibile. Ha distrutto l’ecosistema che fondava l’esistenza stessa della «riserva naturale». Per essere più chiari. Un’area può essere qualificata come «riserva naturale» (e sottolineo il «naturale»), in base agli ecosistemi «naturali» che la costituiscono. Se scompaiono questi (come è accaduto nel rogo), scompare la stessa «riserva». In sintesi, il luogo resta – una spiaggia con falesia retrostante –. La riserva che lo definiva come «unico e insostituibile», no. Come si può ben intendere, non si tratta solo di un danno ambientale (in qualche modo recuperabile). Ma della morte stessa di quell’ecosistema!

Vale la pena ripeterlo. La parola chiave di una riserva naturale è «ecosistema». Ed è sufficiente consultare un qualsiasi dizionario della lingua italiana per rendersi conto del significato di questo vocabolo. Vale a dire: «l’insieme degli organismi viventi (fattori biotici) e della materia non vivente (fattori abiotici) che interagiscono in un determinato ambiente costituendo un sistema autosufficiente e in equilibrio dinamico».

(Foto Mercurio Saraceni)
Un’area talmente importante, dunque, in cui, per salvare l’unicità di fattori biotici e abiotici che in quello specifico luogo si sono combinati, è la stessa attività umana che deve essere limitata per garantire il mantenimento dell’equilibrio.

Come si può capire, quella di Punta d’Erce non è un’area qualsiasi in cui una nuova piantumazione delle stesse specie può risolvere il problema. Perché se ciò fosse vero, non parleremmo di «riserva naturale», ma semplicemente (si fa per dire!!!) di un’area verde devastata da una mano criminale. E allora che cosa sono le «riserve naturali» per lo Stato italiano?  Lo apprendiamo dall’art. 3 della legge 6 dicembre 1991 n. 394 entrata in vigore 28 dicembre dello stesso anno che le definisce in questo modo: «Le riserve naturali sono costituite da aree terrestri, fluviali, lacuali o marine che contengono una o più. specie naturalisticamente rilevanti della flora e della fauna, ovvero presentino uno o più ecosistemi importanti per le diversità biologiche o per la conservazione delle risorse genetiche».

(Foto Mercurio Saraceni)
Porca miseria! Con il rogo della spiaggia di Punta Penna e della sua falesia, la mano criminale ha distrutto un luogo fondamentale per la conservazione di ciò che chiamiamo diversità biologiche. Per tale ragione dobbiamo lasciare alla natura il compito di riconquistare lo spazio di vita che essa stessa aveva creato. Nessuna piantumazione, dunque. Nessun intervento artificiale. Ma vigilare! Vigilare senza posa perché dai resti combusti, dalle ceneri sparse, la natura possa riprendere il suo corso e decidere la forma che essa stessa intenderà assumere in futuro. Perché ciò accada, l’area potrà essere visitata (in ricordo dell’infamia perpetrata), non utilizzata. Un argomento che, in seguito, intenderò affrontare.

Non so il perché. Ma mi è tornato in mente quel monito oggi ancora visibile che, nel giorno delle Ceneri del 1844, gli antichi abitatori del Vasto avevano posto sul pronao del Cimitero della città: «resurrecturi quiescimus». Che vuol dire: «riposiamo per risorgere». Già. Adesso è tutto più chiaro. È proprio questo il tema su cui insistere. Lasciar riposare la natura, perché possa risorgere come essa vorrà. Il resto è «defensa».

(Foto Mercurio Saraceni)
Un’ultima osservazione. Nella campagna di Vasto c’è una località dal toponimo apparentemente singolare, ma che singolare non è: «Defenza». In effetti, altro non costituisce che la restituzione della voce latina citata in precedenza che vuol dire «difesa». Nel caso specifico, una parte della grande foresta oggi scomparsa della «Selva Cupa», che era stata definita come «difesa»; non solo perché sottratta all’uso di chi non aveva l’autorizzazione, ma agli stessi usi civici (l’antico diritto consuetudinario che riconosceva la proprietà collettiva della terra).


(Foto Mercurio Saraceni)

Di «Defenza», parlo per la parte arsa della riserva. Anzi, di «Defenza della riserva di Punta d’Erce». Magari, con l’apposizione nell’area di un semplice cartello che, indicando il programma culturale di conservazione che lo sottende, possa recitare quanto segue:

 

IN ATTESA DI RISORGERE

LA NATURA RIPOSA


Pubblicato da Mercurio Saraceni

domenica 30 agosto 2020

30 AGOSTO 2020: UN DISASTRO AMBIENTALE

 


30 AGOSTO 2020: UN DISASTRO AMBIENTALE

di Luigi Murolo

«Accettare l’inferno e diventarne parte, fino al punto di non vederlo più»: è questo il modo imbelle di vivere la contemporaneità secondo la denuncia di Italo Calvino nelle «Città invisibili» (1972). Ma la domanda è: perché non riusciamo a vedere l’inferno se tutto intorno a noi brucia? Qualche giorno fa l’incendio di Vasto Marina, e oggi quello di Punta Penna. Il che vuol dire: se non riusciamo a vederli, evidentemente non riusciamo nemmeno a pre-vederli? E per quale motivo: forse perché in assenza di acqua potabile, come sta accadendo in questi giorni, la sete impedisce di guardare con occhi attenti la realtà? A tutte queste domande non so rispondere. So solo che, malgrado l’impegno di forze dell’ordine e protezione civile, non si riesce a frenare la mano delittuosa (tutta da scoprire) di eventuali piromani (difficile pensare – anche se possibile – a un atto di autocombustione. Saranno le indagini a accertare le responsabilità). Un’intera falesia distrutta con tutta la sua vegetazione e con il pericolo per le vite umane. È bene ricordare che, proprio in quell’area – segnatamente, nel sito archeologico di Colle Martino – è posto un parco serbatoi di acido solforico e fosforico con una capacità di circa 4mila metri cubi, pari a circa 8mila tonnellate. Non oso pensare che cosa sarebbe potuto accadere se l’incendio avesse interessato questi depositi.

Le indagini sono all’inizio. Ma nel caso di responsabilità individuali inviterò i cittadini a costituirsi parte civile nei confronti degli eventuali autori.

Sotto, qualche foto e filmato sull’accaduto:
































Foto: Mercurio Saraceni

Video: Luigi Murolo


Pubblicato da: Mercurio Saraceni

mercoledì 26 agosto 2020

Sul Premio Vasto 2020

 








SUL PREMIO VASTO 2020

di Luigi Murolo


L’edizione 2020 del Premio Vasto consente una riflessione a tutto tondo sulla sua storia, attraverso il patrimonio che è riuscito a collezionare in oltre sessant’anni di attività. Un’avventura iniziata nel 1959 che, tra alti e bassi e con qualche interruzione, ha consentito alla città e ai suoi visitatori di poter seguire da presso la storia dell’arte italiana contemporanea, a cominciare dal periodo degli inizi attraverso i rapporti stabiliti con il mondo pittorico della Quadriennale di Roma per poi proseguire con le grandi retrospettive tematiche. Come si può capire, un’occasione unica quella odierna, proprio perché in grado di ricucire passato e presente a partire dall’incolmabile differenza che connota le molte temporalità attraversate dal Premio. In tale prospettiva, l’itinerario nell’esperienza postmoderna della pop art è ciò che meglio sottolinea la duttilità ermeneutica degli argomenti indagati. E per quanto è dato di ricordare (soprattutto, per gli stimoli offerti), sono state ben due le rassegne che il Premio Vasto ha dedicato a tale vicenda estetica: quella di Maurizio Calvesi (scomparso a luglio di quest’anno) e Alberto D’Ambruoso del 2005 e l’altra di Lorenzo Canova del 2019.

A questo punto, lasciando da parte vicende specifiche dell’istituzione culturale la cui storicizzazione è affidata alle importanti pagine critiche di Carlo Fabrizio Carli (Il Premio Vasto nel quadro dei premi pittorici italiani) e di Lorenzo Canova (Un lungo viaggio nell’arte. La Collezione del Premio Vasto) che accompagnano il catalogo dell’attuale edizione, la presente nota vuole parlare di un tema affrontato nelle precedenti edizioni (specialmente la XLIX dal titolo Archeologie a venire) che intriga per la particolare relazione che il Premio intrattiene con la sede espositiva in cui si svolge. Vale a dire il rapporto tra archeologia e contemporaneità che si dipana proprio in quel Palazzo d’Avalos che ospita l’antico Gabinetto Archeologico Comunale di Vasto. E se si pensa che forse l’opera più importante (un assoluto fuori tema) presente nella collezione del Premio Vasto ha per titolo Archeologia di cui è autore Emilio Tadini (premio acquisto 1973), diventa chiara la suggestione che può esercitare un simile soggetto in un contesto di tal fatta. Una tela – va detto – che, raccordata agli stessi oggetti del Museo del costume di cui in qualche modo sembra essere interprete, propone una significativa riflessione sulla rottura del continuum storico in unica sede e delle possibilità interpretative – e perché no, scenografiche – che, tra costruzione e decostruzione, offre la contemporaneità di lettura di passato e presente. E a tal proposito, non si può non pensare alla magnifica soluzione espositiva del Guerriero di Capestrano nel Museo Nazionale di Chieti ideata e realizzata da un importante artista contemporaneo come Mimmo Paladino. Quasi non bastasse, la tecnica mista di Guido Biasi che troviamo nella collezione del Premio Vasto dal titolo Mnemoteca 60 [fig. 1] – premio acquisto del 1975 – apre un altro tema importantissimo: quello della teca della memoria (tra l’altro, titolo di una collana di libri editata dal Premio). Vale a dire, l’attenzione per il patrimonio culturale immateriale che, malgrado tutto, riesce ancora a sopravvivere nel presente: dall’immaginario ottocentesco impresso dal dagherrotipo, al paesaggio d’antan, al cromatismo dell’oscurità, allo stesso vuoto di là da venire. Il che vuol dire che, di là dall’ultima traccia distopica suggerita dall’artista, l’opera di Biasi pare restituire su tela ciò che Giorgio Agamben ha prospettato en philosophe: «Contemporaneo è colui che riceve in pieno viso il fascio di tenebra che proviene dal suo tempo» (Che cos’è il contemporaneo?, Roma, Nottetempo, 2008, p.19). 

(Fig. 1: Guido Biasi, Mnemoteca 60 (1970) Tecnica mista, cm 80 x 100,5)

E c’è di più. La cinquantesima edizione del Premio Vasto (2017), curata da Silvia Pegoraro ha presentato una straordinaria testimonianza di come non bisogna misurarsi con l’antico. Di un possibile percorso d’uso dei materiali archeologici che la contemporaneità ha rigettato con forza. L’esempio di cui stiamo parlando è relativo alla piccola scultura (cm 12 x 25 x 36,5) di Costantino Barbella dal titolo Santa Cecilia realizzata nel 1908 [fig. 2], l’anno prima dell’approvazione della legge n. 364 del 20 giugno 1909, «Per l’antichità e le belle arti», vero atto di nascita della disciplina nazionale italiana di tutela, di quelle «cose immobili e mobili che abbiano interesse storico, archeologico, paletnologico, paleontologico o artistico». Perché questo riferimento? Per la ragione che, il celebre scultore abruzzese, realizza un marmo statuario collocato su un granito egizio di provenienza archeologica (da dove?). Dunque, lavora su un materiale di spoglio fino a quel momento legittimamente utilizzabile. Ciò vuol dire che, senza la legge appena menzionata, ci saremmo potuti trovare di fronte a un’ipotetica (ma non troppo!) situazione del tipo «quod non fecerunt barbari, fecerunt Barberini», la celebre locuzione latina coniata dal Pasquino di turno nel 1625, circa le scelte di Urbano VIII sull’asportazione e sulla fusione delle travature bronzee del pronao del Pantheon, per costruire il baldacchino di S. Pietro e i cannoni per Castel S. Angelo.

[Fig. 2: Costantino Barbella, Santa Cecilia (1908)]

Diciamola tutta. Il Premio Vasto ha restituito, nel tempo, le molteplici forme con cui la contemporaneità ha affrontato il rapporto con l’antico. Anzi, nell’eventualità di un ipotetico catalogus catalogorum tematico su questo versante, riusciremmo a individuare altri percorsi nascosti del Premio in cui passato e presente dell’arte convivono nella contemporaneità. Il discorso merita ulteriori approfondimenti. Ma prima di andare oltre, è bene sottolineare un aspetto assolutamente rilevante: la conservazione museale dell’arte contemporanea con cui devono fare i conti. In effetti, con questa edizione il Premio Vasto ha compiuto un’operazione di straordinaria importanza: l’inventariazione e la mostra del patrimonio culturale acquisito negli anni e oggi esistente. Che vuol dire: trasparenza del sistema di tesaurizzazione e di tutela. Importantissima. Ma con un’indispensabile aggiunta, sempre in relazione con l’arte contemporanea che è il vero refrain del presente intervento. L’esigenza, cioè, di redigere un protocollo ad hoc per regolamentare quanto previsto da quell’art. 4e dello Statuto comunale che recita: «tutela del patrimonio storico, artistico, culturale ed ambientale della Comunità valorizzandolo, conservandolo nel modo più idoneo e rendendo fruibili i beni che lo costituiscono». Cosa ovvia, dirà qualcuno. Di certo non scontata, mi sento di aggiungere. Si dà il caso che l’arte contemporanea si trova in una condizione diversa dalle altre. Ad esempio, il Codice dei beni culturali 2004 all’art. 10 prevede la libera circolazione (anche all’estero) di «opera di autore vivente o la cui esecuzione non risalga ad oltre cinquanta anni», implicandone di conseguenza la regolare alienabilità. Con un’ulteriore aggiunta. L’art. 175 della Legge 4 agosto 2017, n. 124 allarga fino a settant’anni le maglie della libera circolazione. Ma per tornare alle disposizioni previste dal codice del 2004 si è potuto procedere a qualcosa di singolare al Museo Michetti (MuMi) di Francavilla al Mare. Qualcosa che lascia davvero senza parole. La cronaca riportata dal quotidiano «Il Centro» in data 16 dicembre 2014 spiega le ragioni di tale stupore:

 Quadri venduti al MuMi incassati 30 mila euro

Francavilla, all’asta la metà delle opere donate dai finalisti del Premio Michetti Le rimanenze possono essere ancora acquistate: ci sono già le prime richieste

La vendita all’incanto delle opere della collezione Pro Fondazione Michetti ha fruttato circa 30mila euro. L’asta di autofinanziamento dell’ente morale, organizzatore del prestigioso Premio Michetti, si è svolta domenica sera al MuMi. Delle 35 opere donate da artisti finalisti e vincitori del Premio, allo scopo di sostenere le attività istituzionali della Fondazione, ne sono state vendute poco più della metà. Fra queste, due tra le più prestigiose e quotate: lo Struzzo artificiale in metacrilato, di Gino Marotta (1968) e il dittico, di Alberto Biasi, L’ira funesta n. 1 e L’ira funesta n. 2 (2006), realizzato con tecnica mista su tela.

L’opera di Marotta, valore stimato di 25mila euro, è stata battuta per 10mila euro (base d’asta). «L’ha acquistata un giovane informatico di Teramo, appassionato di arte», precisa il presidente della Fondazione Vincenzo Centorame. Il dittico di Biasi, valore stimato 15mila euro, se l’è aggiudicato un altro abruzzese per 7.500 euro (base d’asta). «Il risultato dell’asta è stato apprezzabile, considerando il momento storico. Nessuna opera è stata svenduta», continua Centorame. «Per non offendere nessuno degli artisti, che generosamente hanno voluto esserci vicini, è stata fissata una base d’asta dignitosa per tutte le opere donate, al di sotto della quale non si è scesi».

I quadri della collezione, rimasti invenduti, possono ancora essere acquistati. «C’è sempre un dopo asta e ci sono già diverse persone interessate che ci hanno scritto», dice ancora il presidente, rimarcando come la Fondazione sia stata costretta a ricorrere all’asta di autofinanziamento, a causa della mancanza di finanziamenti pubblici. «Da qualche anno le sovvenzioni pubbliche sono drasticamente diminuite e non abbiamo più il sostegno degli enti. Nelle ultime edizioni del Premio Michetti non abbiamo più messo, ma gli artisti sono stati molto generosi e ci hanno lasciato ugualmente la loro opera. Il Premio Michetti è il più antico d’Italia dopo la Biennale di Venezia; è un premio prestigioso che non ha mai avuto problemi, né suscitato chiacchiere per la scelta dei vincitori. Il nostro patrimonio è enorme: è tra le più belle collezioni d’Italia». Per preservare il Premio e il patrimonio artistico della Fondazione, Centorame confida nella nuova amministrazione regionale. «Da quando sono presidente, circa 15 anni», afferma, «sono venuti a vedere il Premio personaggi politici, direttori di musei esteri, ma mai un assessore regionale alla cultura. Spero che il nuovo governo rispetti l’impegno preso di dare la precedenza alle eccellenze, sostenendo la tradizione del Premio Michetti».

Tutto questo in un ente che avrebbe dovuto procedere alla tutela e alla valorizzazione del patrimonio d’arte acquisito. Un compito, questo, assolutamente legittimo per il mercato d’arte. Ma è comprensibile per un ente che dovrebbe musealizzare e promuovere la conoscenza di opere acquisite alla cultura della città relative a un periodo specifico della storia contemporanea dell’arte italiana? Di solito il mercante vende, l’ente che acquisisce tesaurizza. Difficile pensare il contrario. Ma per quanto arduo da intendere, diventa realissimo negli effetti concreti. Ecco il rischio cui si può incorrere: la vendita all’asta. Ed è proprio questo il rischio che si deve evitare. Cui si può andare incontro in assenza di un protocollo specifico del Consiglio Comunale di una città. E per quanto riguarda Vasto, ritengo importante prospettare un protocollo ad hoc che, in ottemperanza dell’art. 4e dello Statuto Comunale, decreti l’inalienabilità dei beni d’arte contemporanea a qualsiasi titolo presenti nelle strutture museali del Comune (ad esempio, il comodato d’uso)! L’eventuale ente proprietario di eventuali beni allocati in comodato d’uso, dovrà prima sgombrare le sale e poi vendere. Ma con clausole penalizzanti. I contratti devono prevedere tali possibilità. Ma c’è di più. 

Fortunatamente il Comune di Vasto non ha subito gli effetti di questa deregulation dell’arte contemporanea (quella, purtroppo, che il MuMi ha avviato, tagliando le radici con il proprio passato). Anzi, come esempio positivo, mi piace sottolineare la collezione permanente del Macte (acronimo di Museo arte contemporanea Termoli) proveniente dal Premio Termoli istituito nel 1955 e che, nella presentazione del sito precisa quanto segue: «La Fondazione Macte, costituita nel febbraio 2019 con la partecipazione del Comune di Termoli e di Emi Holding S.p.A. nasce con l’intento di promuovere l’arte e la cultura e di valorizzare e gestire il patrimonio della collezione di opere del Premio Termoli». A conti fatti, una formula cui bisogna attenersi. Certo. Il Premio Vasto non dispone delle 470 opere della collezione termolese che spazia dal post-informale all’astrattismo, alla nuova figurazione, all’arte cinetica e programmata. Ma ciò importa poco. Ogni istituzione ha la sua storia. Vasto ha la sua. Una storia – vale la pena ripetere – che, per la prima volta, il catalogo 2020 «storicizza» nel contesto dell’arte italiana del secondo Novecento.

Due, in buona sostanza, sono gli aspetti da considerare. In primo luogo, la collezione del Premio Vasto; in secondo luogo, le restanti donazioni d’arte contemporanea. Pur se caratterizzate da norme diverse, entrambe devono rispondere alla regola aurea par excellence: un protocollo di inalienabilità per tutte le opere di arte contemporanea, a qualsiasi titolo allocate nei depositi comunali. Inoltre, stabilire criteri rigidissimi, da approvare sempre in consiglio comunale, per la conservazione delle opere. Non foss’altro perché, alcune delle quali (per la precisione quattro) purtroppo mancano ancora all’appello: Andrea Carnemolla, Caduta di Icaro; Antonio Di Fabrizio, Strane correlazioni; Giuseppe Fiducia, Trono del despota; Orfeo Tamburi, Case sulle crete).

Ecco allora il punto. Custodire il contemporaneo come se fosse archeologia. Ecco perché, Archeologia, titolo dell’opera di Emilio Tadini (1973) presente oggi in mostra e già prospettata l’anno scorso in occasione della cinquantaduesima edizione, diventa il punto chiave di un ragionamento più generale su tutela e promozione del Contemporaneo [fig. 3].

L’opera di cui si sta parlando è un acrilico su tela. Nei fatti, fin dal titolo sembra profilare la pratica di «scavo» effettuata dall’artista nell’ambito della storia dell’arte novecentesca e che, in chiave postmoderna, vuole restituirne la cifra nemmeno poi tanto segreta. E che cosa vuol definire? Forse una sorta di operazione di spoglio dei materiali formali dell’antichità in qualche modo assimilabile a quella condotta dai maestri medievali nei confronti dei resti romani riutilizzati proprio come res nella realizzazione delle cattedrali? No. Nulla di tutto questo. Al contrario. L’opera di Tadini pare rinviare a quell’orizzonte foucaultiano che prevede «la flessione delle parole» – cosa che, sul piano artistico, implica «la flessione delle forme» – (del resto, mi pare che sia questo l’indirizzo ermeneutico suggerito da Maurizio Calvesi). In altre parole, coglierne il filo in quell’ambito critico-artistico che presuppone il primato dell’analisi delle forme rispetto al sistema delle rappresentazioni. In questa chiave, l’“archeologia” si trova a porre al centro dell’interpretazione il tema dell’episteme (che potremmo tranquillamente definire codice) che identifica le strutture primitive e originali di un periodo con le successive pratiche discorsive e culturali.

[Fig. 3: Emilio Tadini, Archeologia (1973) acrilico su tela (cm 100x81)]

Da tale punto di vista, tutta la postmodernità, mossa dal disincanto per le teleologie di ogni tipo e per ogni finalismo storico, affida alla citazione e al riuso delle forme moderne, le possibilità del proprio sussistere. Ed è con questo modello, con quell’Emilio Tadini che ne è stato geniale interprete, che la pop art italiana si trova a definire la propria modalità di essere-nel-mondo. Le forme non hanno un telos, un fine. Sono disponibili in ogni momento. Come le tutte le altre res.

Le combinazioni possibili tra queste sono infinite. Ma sono solo alcune che si affermano in un determinato periodo. Definibili come epistemi, configurano le strutture originali di una determinata epoca. Ma come si riconoscono per la Pop Art? Lo storico dell’arte Maurizio Calvesi procede in questi termini, a partire dagli anni Sessanta e dall’esperienza della cosiddetta Scuola romana di Piazza di Spagna: «De Chirico è stato molto amato dagli artisti della Pop Art che gli hanno reso omaggio in molti modi, da Ceroli a Festa, a Schifano, Marotta e Pascali, senza dimenticare Oldenburg, Lichtenstein o Warhol in America. Fu bellissimo quando de Chirico sembrò accettare quegli omaggi chiudendo la sua lunga e interessante fase barocca per iniziare lo splendido periodo della sua Neometafisica degli ultimi anni di vita, con un’esplosione di luce e una nuova felicità cromatica. I soli gialli sul cavalletto, i palloni e i giocattoli colorati, le liete cabine dei bagni misteriosi, i mobili nella valle, il mare di Ulisse che appare nella stanza sono entrati così in diretta sintonia con la Pop internazionale come un gioioso, giocoso e profondo segno di armonia». Ma nell’episteme del pop – sempre secondo Calvesi – è riscontrabile la stessa attiva presenza del futurismo di Umberto Boccioni.

Ora, se è questa la prospettiva «archeologica» che opera nelle tele di Emilio Tadini – e non abbiamo alcun motivo per dubitarne se è vero che l’opera di proprietà del Premio Vasto datata 1973 ha per titolo Archeologia –, è ancor più vero che, tra il 1967 e il 1972, l’artista realizza un ciclo di dipinti intitolato Archeologia con De Chirico [fig. 4]. E in questo caso, va detto, che, rispetto all’acrilico vastese, qui è esplicito il richiamo alla lezione del maestro delle Muse inquietanti. Del resto, lo stesso De Chirico si era ispirato, con grandi fusioni da gesso in bronzo lucidato, al tema del Grande archeologo (un esemplare dei quali è stato esposto alle Scuderie d’Avalos in occasione della 50a edizione del Premio Vasto) [fig. 5]. Per questo artista, l’archeologo non era solo forma, ma anche contenuto. In lui era vivo lo spirito della modernità con la sua corrispondente dialettica. Nel cuore delle figure, prendevano corpo i resti dell’antichità. L’archeologo era realmente l’archeologo: colui che scopre la classicità nascosta riportandola alla luce. Come accade per la pittura metafisica che porta allo scoperto il lato non definito delle res. Cosa completamente diversa da Tadini che, fin dal titolo e nel riuso esplicito dei pezzi dechirichiani nelle opere realizzate tra il 1967 e il 1972, cerca il rifermento forte della pop art italiana (non ancora l’episteme). Ad esempio, nell’ultima retrospettiva sul pittore milanese recentemente allestita dalla Fondazione Marconi nella capitale lombarda, una tela restituisce senza alcun nascondimento la figura del Grande Archeologo [fig. 5]. Al contrario, l’acrilico vastese posseduto dal Premio Vasto – come già detto, datato 1973 – segna una netta rottura con il suo recente passato. Tadini opera una trasposizione metonimica del contenuto dechirichiano. Esso diventa esclusivamente forma che apre all’episteme della contemporaneità (da questo punto di vista sarà stata determinante la lettura de Le parole e le cose, il capolavoro di Michel Foucault pubblicato in Italia nel 1967. Magari con l’influenza interpretativa prospettata dal francese per Las meniñas di Velázquez, non certo per quella suggerita da Picasso nel 1957. Ricordo, tra l’altro, che lo stesso Pasolini ne aveva offerto una splendida lettura in Che cosa sono le nuvole?, un corto del 1968). E allora, mi chiedo: Foucault, dunque, alla base teoretica del pop tadiniano? Si può solo rispondere: le condizioni ci sono tutte. Per cui da qui vale la pena iniziare.

 

[Fig. 4: Emilio Tadini, Archeologia con De Chirico (1972) 
acrilico su tela (cm 146x114])

[Fig. 5: Giorgio De Chirico, Il grande archeologo (1970) 
bronzo lucidato, fusione da gesso (cm 95x49,5x47)]



 

Pubblicato da Mercurio Saraceni

DUE O TRE COSE SULLE RECENTI VICENDE D’ERCE

  (Foto: Mercurio Saraceni) DUE O TRE COSE SULLE RECENTI VICENDE D’ERCE di Luigi Murolo H o letto su vari organi di informazione che si ...